Preso atto che la migrazione verso l’Europa è un processo ormai inarrestabile che porta con sé un inevitabile impatto tra culture e religioni, storia e tradizioni, e che il risultato ad oggi sono solo violenza e populismo, è doveroso interrogarsi su quale debba essere una ragionevole soluzione che consenta a tutti di sopravvivere.
La parola ha fallito, nella misura in cui è facile farsela sfuggire per attirare attenzione e consenso, e ne è prova il fatto che il sistema, quantomeno italiano, si sia cristallizzato in una dicotomia tra buoni e cattivi, nessuno dei quali ci sta minimamente avvicinando al nostro unico, vero obiettivo: trovare l’equilibrio per una pacifica convivenza, che rispetti i valori ed i diritti di chi arriva ma al contempo non neghi quelli di chi c’è già.
E’ necessario quindi alzare l’asticella, attraverso un livello di comunicazione universale più alto ed affilato, che consenta di rappresentare quella pienezza di contenuti necessaria alla soluzione dei problemi, che non sia smontabile attraverso la facile dialettica tanto al chilo a cui tutti ci stiamo abituando. Esattamente come sta facendo in questo momento Parigi, la città europea che paga il prezzo più alto di questo smottamento storico perché rimane ferma nel sostenere e salvaguardare i suoi principi civili non negoziabili, ma al contempo apre sempre più verso l’ascolto delle voci che arrivano da fuori.
No, non parlo di Macron. Parlo di Arte.
Alla Maison Européenne de la Photographie è in corso una esposizione di performer legati dalla cifra comune di utilizzare il proprio corpo, la propria fisicità, portandola all’estremo del dolore, dell’osceno, della bellezza, per fare arte. Come è noto l’uso e la manipolazione del corpo è un tabù per tutte le religioni perché consente all’uomo di bastare a se stesso nella ricerca del senso e della conoscenza. Una affermazione potente dei principi di libertà di espressione, di autodeterminazione, di rispetto incondizionato del pensiero, la cui salvaguardia è vitale pena il rientro dell’uomo occidentale in un medioevo da cui ha dovuto faticare secoli, per affrancarsi.
La Fondazione Louis Vuitton, invece, ospita un focus sull’arte africana contemporanea, in un viaggio nell’area subsahariana del continente tra artisti emergenti ed affermati, declinato in ogni forma espressiva, foto, pittura, installazioni, opere tessili, video. Le voci dell’Africa raccontano esperienze, sogni, problemi di una civiltà attraverso un mood di lettura del tutto incontaminato rispetto alla civilità occidentale. Il risultato è quello di una purezza espressiva che ci permette di comprendere chi è davvero l’uomo che arriva in Europa, cosa ci porta in dono e cosa dobbiamo dare a lui per stare bene insieme.
Aspettando i barbari è un libro scritto dal Premio Nobel per la letteratura J.M. Coetzee, che racconta in maniera trasversale e poetica la storia di frontiera di un magistrato che vive l’aggressione ai Barbari confinanti, accusati dal potere militare di ordire trame di occupazione e saccheggio dell’Impero in cui vive, e della sua conversione ad una visione più realistica e meno idealizzata di chi è diverso da noi. Un libro che racconta anzitutto dell’ignoranza attraverso cui si manipola la coscienza degli uomini, e la salvezza che alloca esclusivamente nella conoscenza.
En attendant les barbares è anche il nome di una galleria d’arte al 35 di Rue de Grenelle, Paris.